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Noi eravamo ciò che loro sono…

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20-02-2015

di Maria Daniela Cavuto
Foto di Sergio Trenna

Una popolare canzone di un centinaio di anni fa, trattava dei nostri emigranti e delle loro fatiche, prima del viaggio poi dell’inserimento. In cento anni, 26 milioni di italiani sono partiti prima per le Americhe e poi per l’Europa. La motivazione sempre la stessa: la miseria, non solo personale ma anche di un paese che non riusciva a garantire sviluppo familiare e sociale adeguati. Altro fattore di rischio per la dignità di questi disperati: l’ignoranza. Poveri, davvero, vendevano le loro misere cose per pagare biglietto e, a volte, anche pseudo “sensali” di lavori che, forse, non sarebbero mai arrivati e comunque non nel modo e con il benessere promesso. Ignoranti di tutto, dall’alfabeto alla lingua, alle realtà straniere che li attendevano.

In terra straniera venivano usati, abusati e molti cedevano alla criminalità e iniziavano a delinquere per sopravvivere e forse sperare di vivere meglio domani… Governi che non proteggevano nessuno, nemmeno la dignità della propria gente, il diritto insito nell’esistenza della persona non esisteva per loro. Ieri, noi italiani, “sporchi brutti e cattivi” e anche pericolosi, da emarginare, anche i bambini.

I nostri migranti, nostri nonni, in qualche modo noi, retaggi socio-culturali che ancora ci accompagnano quando visitiamo paesi stranieri. Oggi, noi Italiani assediati da una moltitudine di poveri, “sporchi brutti e cattivi”, che violano come possono le nostre fragili frontiere. L’Italia, terra promessa per chi nelle proprie terre non trova possibilità, sostegno, organizzazione economica, tenore dignitoso di vita.

Ancora noi, che però oggi facciamo fatica, quando ciò accade, per capire ed accettare i poveri che invadono il nostro paese: razzismo. Troppo facile ridurlo a questo tema di per sé forte e importante, troppo facile dimenticare o far finta di non sapere ciò che per noi è stato, troppo facile avere paura dei diversi da noi, condannarli, ripudiarli, dimenticare o far finta di non sapere ciò che significa per loro, oggi , emigrare. Questo tema è discusso e discutibile, se ne trovano testimonianze, racconti, documenti in ogni luogo e il web ci rimanda anche immagini incredibili.

Non è possibile non sapere, non è possibile non paragonare, non dovrebbe essere possibile giudicare, condannare, rigettare. Un interrogativo sorge spontaneo, cosa imparare da questa incredibile storia che si ripete?

Quale sentimento coltivare nei nostri cuori e nelle nostre menti per far si che tutto ciò non sia vissuto invano, le storie e le sofferenze dei nostri avi, le storie e le sofferenze dei nostri contemporanei, immigrati stranieri, nella nostra terra, le storie e le sofferenze delle nostre relazioni con il diverso che ci vive accanto?

Esiste un sito, americano, incredibile che con una semplice e veloce registrazione fa accedere agli archivi della ben nota Ellis Island, avamposto di contenimento e gestione degli italiani che arrivavano in America dopo settimane, mesi di “bastimento” stracolmi di gente costretta a navigare sottocoperta, senza assistenza e nemmeno igiene. Lì i nostri connazionali, bambini compresi, venivano messi in quarantena, visitati fisicamente e psichicamente, schedati meticolosamente e poi, quelli sani ed in grado di lavorare, venivano accolti nella “terra promessa” la Merica, e gli altri rimandati in patria con una sorte ben peggiore di quando erano partiti, perché non avrebbero più trovato né case né terreni, venduti per pagare biglietto e pratiche burocratiche governative per l’espatrio.

Ellis Island.org, digiti i tuoi dati, entri, leggi la storia del luogo, che in fondo è quella del mondo, vai sul form di ricerca, digiti un nome della tua famiglia, il tuo cognome, fai il ben noto invio e compare una serie di cognomi tutti uguali a quello che cerchi, i nomi con accanto i luoghi di nascita, di partenza, il giorno di arrivo, le loro condizioni fisiche psichiche ed economiche, e, sì anche quanti dollari avevano in tasca.

Leggi il tuo cognome in quella stana lista che sa di storia e di dolore, con sgomento evidenzi qualcuno che forse appartiene alla tua personalissima storia e pensi, cento ani dopo qui, sul web, a chiedersi tutto e in fondo niente che il nostro cuore non abbia già indagato. Razzismo, straniero, integrazione, il tempo che passa e lenisce le ferite, le nostre, quelle altrui, possiamo fare molto perché queste ferite guariscano prima e con il nostro aiuto, a volte difficile da dare, riscattare noi stessi senza dimenticare, ma per accettare.

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