di Fernanda Di Monte
Siamo ormai abituati a sentir parlare di lavoro, a fare manifestazioni per sollecitare aumenti di salario, o la salvaguardia dei posti di lavoro. Del resto, è un diritto sancito dalla Costituzione e che sovente viene disatteso. Il lavoro può essere considerato come espressione di libertà, di creatività e di dignità umana o – come spesso avviene – come fatica, come condanna. La Chiesa si è sempre ispirata a considerarlo come un modo umano di associarsi all’attività creatrice di Dio.
Il beato Giacomo Alberione(1884-1971) sviluppò attraverso i suoi dieci Istituti che formano la Famiglia Paolina una vera e propria “teologia del lavoro”. Punto di riferimento fu san Giuseppe di cui prese il nome, quando il 5 ottobre 1921, insieme ai primi discepoli, emise la professione religiosa. Per lo stesso motivo compose una “Coroncina a san Giuseppe” e un’interessante “Preghiera dell’operaio”. Così scrive don Alberione: «Il lavoro, sia materiale, morale, intellettuale e apostolico, ci avvicina a Dio eterno[…] Chi non lavora non procura la propria elevazione, né ha diritto al pane. Da una parte il lavoro, dall’altra la pazienza del lavoro; da una parte tendere a migliorare in modo giusto la propria condizione, dall’altra sopportare i disagi; da una parte l’afflizione, dall’altra la consolazione; da una parte esigere il giusto, dall’altra dare il superfluo».
Don Alberione insiste sempre perché, durante la formazione, venissero sempre alternati lo studio al lavoro in legatoria, in tipografia, in redazione: «Tutto il Vangelo si muove nel mondo del lavoro. Tutti ne hanno il dovere. Nessuno anche se ricco, è dispensato». Del resto, lo stesso don Alberione era stato educato dai genitori a dare il suo contributo al lavoro agricolo, quando rientrava in famiglia per le vacanze. La “teologia del lavoro” alberoniana, ha inizio in quegli anni: «Già durante il chiericato e specialmente più avanti meditò il mistero della vita laboriosa di Gesù a Nazareth. Un Dio che redime il mondo con le virtù domestiche e con un duro lavoro fino all’età di trent’anni. Lavoro redentivo, lavoro di apostolato, lavoro faticoso».
Per don Alberione l’attività lavorativa è apostolato, è partecipazione a ciò che lo stesso Gesù ha vissuto e realizzato: « Non è questa la via della perfezione, mettere in attivo servizio di Dio tutte le forze, anche le fisiche? Non è Dio atto purissimo? Non entra qui la vera povertà religiosa, quella di Gesù Cristo? Non vi è un culto a Gesù-Operaio? Non si deve adempiere il dovere di guadagnarsi il pane? Non è stata questa una regola che san Paolo impose a sé? Non è un dovere sociale e che solo adempiendolo l’apostolo può presentarsi a predicare? Non preserva dall’ozio e da molte tentazioni?».
Si può affermare senza alcun dubbio che don Alberione fa suo e lo inculca ai suoi figli il binomio benedettino dell’“ora et labora” e la stessa concezione teilhardiana del lavoro considerato apostolato: «Come potremmo dire di fare l’apostolato, se ce ne rimanessimo con le braccia conserte? Non è così che fecero i nostri grandi Maestri; non è così che fece il nostro Padre san Paolo.[…] Solo in questo modo potremo dire con verità, come san Paolo, sul letto di morte: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho mantenuto la fede” (2Tm 4,7)».
Secondo don Alberione, il lavoro è parte inscindibile di una sana pedagogia, perché aiuta i giovani a sviluppare le proprie capacità, a indirizzare le proprie energie, a pensare “grande”, a sentire che si partecipa della vita divina. Soprattutto per chi vuole donare la sua vita al Signore: «La vita religiosa non può essere l’aspirazione di chi vuol vivere senza faticare; di chi non lavora; di chi si rifugia ed accetta la vita del convento per evitare la sua parte di combattimento nell’apostolato. […] E’ la vita più faticosa, e costituisce una continua abnegazione e redenzione». Quando don Alberione chiese l’approvazione della Società San Paolo, la Congregazione romana rispose che la stampa non poteva essere uno strumento di apostolato. Per tutta risposta, don Alberione arrivò a dire: allora perché permettete ai trappisti di produrre cioccolato, ma non ai paolini di occuparsi della “Buona stampa”? Perché questa sua intuizione aveva radici ben profonde: «Tutto l’uomo in Cristo, per un totale amore a Dio: intelligenza, volontà, cuore, forze fisiche. Tutto, natura e grazie e vocazione, per l’apostolato».